Il linguaggio elaborato da Renzo Bellanca si muove entro due polarità, tanto diverse da poter sembrare contraddittorie o almeno antitetiche: l’attenzione per la materia e l’interesse per il segno. Da una parte la volontà di sperimentare sempre nuovi materiali, dall’altra il desiderio di rimanere ancorato alla forma e alla sua impaginazione nello spazio, per cercare di raggiungere una sottile armonia tra le potenzialità della materia scelta e la necessità di sviluppare alcuni assunti programmatici delle esperienze artistiche del secondo novecento, che tanto profondamente hanno influenzato molte delle pratiche creative contemporanee.
Ad una prima osservazione la ricerca dell’artista si presenta come indagine sulla materia, articolata esplorazione sulle attitudini espressive, sulle qualità evocative, sulle infinite possibilità di trasformazione attraverso una progettualità legata indissolubilmente all’arte.
Bellanca, infatti, ha sviluppato una pittura fatta di impasti viscosi, di colori brillanti e opachi, di imponderabili spessori e sorprendenti rarefazioni, cui è sotteso un rigoroso equilibrio giocato su rapporti saldi, mai provvisori. Con la spatola o il pennello fa levitare la materia e poi la solidifica, l’aggrega e poi la disgrega, la lacera e poi la ricompatta, per scandirne il dispiegarsi sulla superficie, ma soprattutto per portare alla luce, come in uno scavo archeologico, i sedimenti che essa custodisce tra le sue trame. Tutto è sapientemente riportato all’architettura del quadro, che ritma il complesso emergere delle forme dalle escrescenze, dalle fenditure, dalle asperità, dagli squarci, dai corrugamenti: lettere, numeri, immagini si presentano come frammenti iconici, reperti recuperati allo scorrere del tempo e imprigionati nella densità cromatica, come a seguito di un processo di lenta sedimentazione.
La materia non è intesa come puro mezzo di rappresentazione, è anzi luogo metaforico in cui le esperienze della vita vissuta si depositano stratificandosi l’una sull’altra, a documentare il flusso inarrestabile di continue coesioni e di incessanti trasformazioni. È inerte e contemporaneamente animata: da una parte trattiene le impronte dello scorrere dell’esistenza, dall’altra si addensa e dirada, ingloba sedimenti e poi lascia che riaffiorino, a mostrare se stessa e il suo complesso divenire.
Ad un’osservazione più attenta, sebbene la materia continui ad essere il nucleo centrale intorno cui si articola il percorso operativo di Renzo Bellanca, la sua ricerca si mostra anche come una riflessione sul segno, che non è di natura geometrica, quanto piuttosto di natura squisitamente organica, a contenere e allo stesso tempo rinviare alla pienezza della realtà esterna, perché ciò che interessa l’artista è la possibilità di seguire una traccia esile capace di suggerire il senso profondo delle cose.
È segno lento e paradossalmente rapido, come il ritmo ineguale dell’esistenza, che si apre e poi si chiude a definire le coordinate di sviluppo dello spazio, che si adagia su se stesso a diventare curva che si slabbra, slancio verticale ma anche paradossalmente spinta verso il basso. È segno sottile che come graffio incide la materia e, allo stesso tempo, è traccia che si distende fluida sulla superficie. È segno straordinariamente vario nella sua morfologia, tanto da assumere valore diverso in relazione agli altri elementi: il colore, l’andamento, il ritmo, per dare corpo ai frammenti e trasformare la materia in energia. L’esigenza è di lasciare che le tessiture cromatiche e le impronte diventino forme, e frammenti di esse, che Bellanca isola, astrae, combina tra loro per costruire un linguaggio capace di esprimere in maniera elementare la complessità, per far sembrare semplice ciò che semplice non è.
A legare saldamente metodologie operative solo in apparenza distanti tra loro (il segno e la materia) è la memoria, intesa come coscienza dell’accadere, del farsi delle cose, del loro continuo divenire, ma anche come strumento attraverso cui l’artista sublima la quotidianità, attraverso cui trattiene durevolmente tutte le tracce di ogni accadimento, attraverso cui cerca di afferrare l’infinità dell’essere per superare la finitezza dell’esistenza. È la memoria a guidare il farsi dei segni, il loro dispiegarsi uno accanto all’altro, il loro stratificarsi uno sull’altro e, anche, il distendersi della materia, il suo aggrumarsi e il suo diradarsi, il suo decomporsi e riaggregarsi, il suo creare spessori e, poi, improvvise lacerazioni e, soprattutto, è la memoria che costruisce l’ossatura dell’opera, la struttura dentro e intorno cui organizzare l’articolazione delle immagini, delle lettere, dei numeri e costruire messaggi cifrati da decrittare.
L’atto di dipingere è sempre sorretto dalla memoria che, non solo mantiene in stretto rapporto dialettico le due differenti polarità della materia e del segno, ma soprattutto, guida il difficile compito di sistemare i reperti, le tracce sedimentate, in una griglia linguistica comprensibile e definita, capace di esprimere il complesso farsi e il disfarsi delle cose, il muto dialogo tra visibile e invisibile, tra razionale e irrazionale.
Loredana Rea