Genesi, Parola e Mito nel linguaggio di Renzo Bellanca

L’anziano rabbino Gaon di Vilna si fermò a riflettere davanti al primo versetto del Libro della Genesi בראשית (Bereshit). Quando Elohim creò il cielo e la terra, esistevano caos e tenebre, continuava a ripetere mentalmente. Cielo e terra componevano la totalità di ciò che è conosciuto e comprendevano l’intero universo cosmico. Caos e tenebre rappresentavano nell’immaginario collettivo e simbolico il non essere, il nulla. Mentre si accarezzava la folta barba bianca, si rese conto che l’autore del testo biblico aveva utilizzato il verbo bārā nelle accezioni di fare o plasmare. Tale verbo indicava sempre un’azione divina, e mai umana; evocava un’idea di novità realizzata senza sforzo. Bārā, bārā, ripeteva mentalmente. Il saggio lituano notò, inoltre, che per narrare il primo momento di quell’istante vitale erano stati utilizzati anche altri verbi; il testo sacro possedeva un’architettura verbale complessa e ben definita. Si fermò a riflettere davanti ad ‘āśāh usato per descrivere sia un’opera di Dio che un lavoro umano, sempre che quest’ultimo impieghi un materiale preesistente. La forma yāsā’ richiamava comunque l’idea di modellare, formare secondo un modello predisposto dalla divinità 1. Poco prima di lasciare la sinagoga, Gaón ebbe la sicurezza che tutti i verbi fossero intimamente relazionati con l’idea di creazione e con le sue distinte accezioni e sfumature. Non sarebbe potuto esistere un momento tanto essenziale senza una parola per comunicarlo, un verbo per annunciarlo. Il fatto in sé era, perciò, tanto importante quanto la forma con cui esprimerlo. Chiese al suo fedele discepolo, Chaim Volozhin, di prendere nota: Elohim creò prima l’alfabeto, poi il cielo e la terra. E con l’alfabeto fu scritta la Torah.

Parola, creazione e storia: il nesso fra questi tre concetti ci accompagnerà nel corso di questa breve riflessione. Costituiscono infatti il tessuto, la trama e l’intelaiatura della proposta plastica di Renzo Bellanca. Ciò che per un critico dell’arte, giustifica e motiva l’ispirazione iniziale dell’artista. Credo che Bellanca, presentando le sue ultime opere, voglia innanzitutto narrare la sua percezione del mondo, la sua personalissima cosmovisione, per mezzo di nuove stratigrafie plastiche, i cui primi esempi comparvero una decina d’anni fa. Le grandi religioni, d’altra parte, hanno attinto dal mito per raccontare la verità. Dopo decenni di studi esegetici, oggi il mito non viene percepito come un genere letterario antistorico, politeistico o frutto della fantasia, molto vicino alla favola. Il mito è anzitutto un’intuizione radicata nel più profondo dell’anima, un mezzo per afferrare la realtà invisibile e trascendente, e non solo: oggetto del mito è la realtà più inaccessibile e recondita per la ragione. Il mito non è antistorico, ma concepisce l’orizzonte storico in forma ciclica, ovvero afferma che ciò che è realmente accaduto si ripete oggi e si ripeterà sempre. Il mito, in breve, è qualcosa di simile all’intuizione di una realtà cosmica, sconosciuta al processo intellettuale che ha come oggetto il divino (monoteismo e politeismo), la natura (origine dell’universo), le forze antropologiche (origine dell’umanità). Il mito che Bellanca utilizza è inglobato dai suoi quadri, intrinsi di tecnica stratigrafica 2. Attraverso tale tecnica egli espone idee, storie, orizzonti, linguaggi e angosce pervase di speranza.

La sfida affrontata da Renzo Bellanca non è nuova, ne aspira ad esserlo in senso assoluto. Le contaminazioni tra pittura e scrittura sono state una costante nella storia dell’arte, in particolare nel XX secolo. Abbiamo assistito ad un doppio linguaggio con interessi reciproci: da una parte la pittura, che ha unito alla sua capacità espressiva le forme di comunicazione alfanumeriche, dall’altra la parola, che ha cercato di andare oltre la sua tradizione puramente letteraria per rendere possibile la rappresentazione figurativa della parola. Essa ha smesso di essere oggetto di un linguaggio astratto ed invisibile e si è voluta unire all’arte in quanto elemento integrante della stessa. Peter Osborne, titolare di una cattedra all’Università di Middlesex, ha da poco correttamente affermato che il linguaggio rappresenta in un certo senso la ‘cifra’ dell’Arte Concettuale. Sul finire degli anni Sessanta i testi invasero le gallerie d’arte, e la distinzione tra spazi espositivi e luoghi di pubblicazione cessò di esistere 3. Numerosi sono gli esempi in cui l’arte ha voluto smaterializzarsi e apparire in quanto espressione verbale (R. Magritte, Les mots et les images (1929); M. Rotella, Muro romano (1957); L. Fontana, Io sono un santo/Io sono una carogna (1958); G. Paolini, Una poesia (1967); A. Soffici, Bottiglia e bicchiere (1915); F. Depero, Automobile verde di lusso (1928); Man Ray, Jeu de visages combien (1950); A. Boetti, Fa-legname (1973); J. M. Basquiat, Five Thousand Dollars (1982); A. Mondino, Hierros (1995); C. Adami, In traslazione. Da sinistra a destra, punto a capo (1999); J. Amrhein, Retro (2002).

Renzo Bellanca non è un esploratore di parole, né un ammaliatore della grammatica; non trasforma il carattere tipografico in un totem assoluto, né la sua reiterata presenza in idolo divinizzato. La parola fa parte di un insieme molto più ampio e articolato, il suo universo non è il cosmo illimitato di un unico elemento. Nella sua opera la parola va insieme al segno, al numero, al simbolo, alla geometria, alla stratigrafia, alla velatura, al colore, al collage, al graffito e ancora, alla materia, degradata o elevata fino alle conseguenze più impensabili. Sono proprio questi gli assi sintattici della sua grammatica creativa. Pochi sono gli artisti che, come lui, hanno presentato con tanta forza e convinzione il cosiddetto Doppio Linguaggio. Il suo rifiuto di appartenere all’uno o all’altro lo ha portato a realizzare un libro-scultura intitolato Cultura fossile (2005). Il linguaggio della parola si fonde con il linguaggio plastico del suo universo, senza esigere più autonomia di quella che gli è propria in tale opera e in tale circostanza. Occorre far presente che Bellanca si allontana dall’arte concettuale quando afferma che l’opera d’arte non è più l’oggetto in sé ma l’idea da cui essa ha origine, mentre la sua attuazione concreta acquista un ruolo meramente secondario, anzi, perfino l’acquirente può decidere sulla consistenza fisica dell’opera 4. Per Bellanca neanche il concetto rappresenta un totem assoluto, da preservare a tutti i costi, ma è semplicemente uno dei componenti della sua opera. Il concetto va coinvolto nella sua genesi creativa e dev’essere accompagnato da segno, simbolo e colore, con valori simili. Si potrebbe affermare che l’artista siciliano, nella sua opera, privilegi l’equilibrio e l’equidistanza tra il conceptum (che significa concepito) ed il factum (o realtà). Unendo la parola e l’idea o concetto come elementi integranti – seppure non unici – della sua proposta plastica, l’opera di Bellanca rappresenta quindi un interlocutore attento e predisposto al dialogo, creativo e artistico, con la parola scritta, che caratterizza e traccia il filo conduttore della presente esposizione.

Il titolo della mostra nasce da una nota incisione dell’artista, che accosta il segno materico a quello linguistico e che ben sintetizza la natura dell’operazione: un dialogo tra due arti, in un gioco di rimandi in cui la letteratura trae ispirazione dal testo pittorico che, a sua volta, si carica di nuovi significati e di originali suggestioni derivanti dalle evocazioni poetiche e letterarie. Il progetto nasce dall’idea di Renzo Bellanca, Luigi Galluzzo e Gaetano Savatteri, amici di lunga data e conterranei, di creare un evento che unisse le loro diverse abilità artistiche. Si delinea, così, l’intenzione di scrivere un racconto inedito, ispirato a un quadro dell’artista. La contaminazione di epoche e linguaggi del passato e del presente, di culture e segni, è una prerogativa dell’opera di Renzo Bellanca, con la quale gli scrittori invitati provano affinità. Quest’ultimi, senza ricevere informazioni o spiegazioni in merito, vi affondano per poi riemergere con la propria creazione letteraria. L’opera di Bellanca, da parte sua, si arricchisce di ulteriori significati letterari che sicuramente amplificano l’idea iniziale, consegnandola allo spettatore sotto una nuova prospettiva. Renzo Bellanca interpreta e decifra con mezzi che gli sono propri, come faranno a loro volta gli scrittori, attraverso il linguaggio scritto. Dopo la sfida tra fotografia e pittura, che terminerà con forme di integrazione molteplici, assistiamo ora al doppio linguaggio con penna e pennello, tela e carta, disegno e ortografia, colore e metafora.

Cercando, nella storia dell’arte, esempi del genere di linguaggio oggetto dell’interesse dell’artista, potremmo circoscrivere la nostra attenzione a pochi casi. Le prove artistiche di Mimmo Rotella (1918-2006) coincidono con la sua cosmovisione comunicativa. Tra aprile e maggio del 1955, a Ponte Sant’Angelo a Roma, Rotella definisce per la prima volta la sua arte come décollage. I movimenti circolari formati da molti strappi, in cui l’artista toglie, graffia, scrive la materia pittorica alla stregua di primordiali incisioni rupestri; volendovi sovrapporre la scrittura, si potrebbe trovare in questa una sorta di traccia in positivo del graffito e riconoscervi una scrittura manuale che perde la possibilità di una lettura e di un senso, ma diviene solo grafia, ductus manuale da cui talvolta emergono lettere e lacerti o parvenze di parole più comprensibili 5. È attratto anche dai messaggi cifrati e dal rapido grafismo dell’americano Cy Twombly (1928), che inizierà a trattare nella torrida estate romana del 1957. Le mura della città, come a suo tempo lo furono quelle di Pompei per Mark Rothko o quelle del campo di concentramento di Terezin per Celiberti, si trasformano in esperienza viva e fisica di un mondo antico e presente insieme. Renzo Bellanca ha studiato attentamente i segni, le lettere, i geroglifici e gli atomi linguistici di Gastone Novelli (1925-1968). Novelli fu un pioniere del rapporto tra scrittura e pittura e, sovrapponendo la pittura alla scrittura, ritrova le radici del linguaggio espressivo. Novelli riconosce la qualità visiva della scrittura, non in quanto immagine in sé, ma perché commutazione del gesto manuale in segno e poi in linguaggio: è nel gesto, nell’andamento della mano che scrive, che si concentra il senso primo del segno, e pertanto anche la lettura non segue le modalità grammaticalmente e linguisticamente predefinite, ma percorre e rifà quello che ha fatto la mano secondo più e vari percorsi, sopra e attraverso la trasparenza della superficie 6. Non rimane indifferente nemmeno ai segni non concettuali di Giuseppe Caporossi (1900-1972), che pretendono significare solo se stessi. Tali segni avevano in sé una misteriosa natura criptica, alcunché di magico e di scientifico insieme, quasi come se si fosse trattato della ricomparsa di antichi simboli tratti da testi ermetici, da cifrari alchemici 7.

Il mito, studiato nella sua versione biblica e tenendo conto dei riferimenti al poema di Gilgamesh, è molto presente nell’opera di Bellanca come elemento di comunicazione, trasmissione e sintesi. Sintonizza inoltre con il concetto insito nella scrittura giapponese, in cui l’ideogramma è simbolo grafico di un concetto, un’idea. Si dice che una poesia scritta con ideogrammi non sia creata solo per essere letta ma anche per essere ammirata e vista come fosse un quadro che riflette la sua bellezza astratta. Il kanji o ideogramma è allo stesso tempo fonema e grafema, parola e idea, significato e significante. Dovendo trasferire alla pittura l’ideogramma concettuale, che proviene da oriente, si farebbe l’esempio di Antoni Tàpies (1923). Le opere di Tàpies e Bellanca costituiscono un lavoro di ricerca sull’epidermide della pittura, anche se il primo si distingue dal secondo in quanto più informalista. Tàpies non utilizza la materia per disegnare, ma per rompere la piattezza del quadro ed alterare le dimensioni di profondità. È una materia familiare, invitante, quasi tattile, con la quale va costruendo poco a poco piccoli depositi di memoria, frutto dell’accumulazione di esperienze grafiche. Bellanca ha molto in comune con le opere materiche dell’artista spagnolo, con le quali convive portando avanti la ricerca costante di nuovi intrecci, nuove densità, porosità, ruvidezze, e ancora spessori, rilievi, grumi, e così via. L’idea di muro è presente in entrambi, sebbene le possibilità espressive confluiscano raramente nello stesso cammino plastico. Ciononostante, li unisce l’idea di accumulazione di certi elementi. Il degrado, il deterioramento, lo scarabocchio, l’impronta, le incisioni e i segni appartengono al muro, ne formano una parte… col lo scorrere del tempo, anche ciò che gli era estraneo, in superficie, è passato a far parte del muro. L’incisione che scava un solco, il colpo che provoca una cavità irregolare, la perforazione, sono elementi che, sebbene originariamente non facessero parte del muro, col passare del tempo finiranno per appartenergli 8. Renzo Bellanca usa il quadro come teatro di avvenimenti, contenitore di storie, spazio narrativo dove proporre temi e risposte alla nostra esistenza complessa e non sempre articolata. L’artista è un intermediario, trasmette essenza tra proposta e risposta, vita e possibilità, realtà e immaginazione. Il mondo di Bellanca è il quadro. La tela è il suo topos, lo spazio fisico, topografico in cui realizza uno scavo in profondità nel pensiero umano.

Il suo linguaggio si manifesta per mezzo della disposizione dello spazio, la gradazione del colore, la forma adottata dalla materia, l’inclusione di un determinato lessico alfanumerico e simbolico, la scelta discorsiva del titolo delle opere. Tutti questi elementi contribuiscono alla configurazione di un progetto comunicativo regolato da una personale grammatica creativa. Giunge ad un simile progetto grazie alla sua tecnica ben definita di stratigrafia plastica, sapientemente modulata con accenti lirici (Mappatura delle Terre Gialle), prorompenti (Flusso di Vita Fossile), evocativi (Parole Sommerse), universali (Antologia), mnemonici (Il sapere attraverso l’ascolto). Per l’artista comprendere la stratigrafia significa rievocare, chiamare in vita civiltà determinate, significa compiere un’azione demistificatrice che favorisce l’evoluzione del pensiero, significa dipanare una complessa e a volte poco chiara sovrapposizione di esperienze, di impulsi, di cumulazione di vite… La stratigrafia è come una trama intricata di un libro che racconta storie parallele, storie di fatti antecedenti, casuali o intenzionali, scritte dal tempo, dall’uomo, dal vento, dalla pioggia, storie che lasciano un segno indelebile. E nessuno, spesso, sa il perché quell’anonimo sceneggiatore abbia scelto di far sopravvivere una realtà piuttosto che un’altra 9. Attraverso la stratigrafía plastica, Bellanca svela il mistero delle mura, delle sue opere, che celano al loro interno una serie infinita di rivestimenti verticali e di periodizzazioni concettuali. È stato scritto che la terra è depositaria di infiniti racconti, che l’archeologia trascrive mediante l’applicazione del metodo di scavo stratigrafico.10 Un concetto, questo, applicabile anche al cosmo plastico di Bellanca: ogni quadro è una complessa narrazione, un insieme di storie, una specie di deposito di memoria.

Qualche anno fa, nel 2003, il pittore spagnolo Pedro Cano inaugurò a Roma una mostra di 55 acquerelli su Le città invisibili di Italo Calvino. Attraverso la pittura, Cano plasmò le descrizioni del mondo esposte da Marco Polo all’imperatore Kublai Kan, su come è il mondo attraverso 55 città con nomi di donna. Quando l’artista murciano realizzò tale prova, ricca di rimandi ed evocazioni, Italo Calvino era scomparso da quasi trent’anni. Fu un lavoro di riflessione, d’eco, più che di dialogo. Ciò che vuole fare ora Renzo Bellanca è conversare a tu per tu con scrittori contemporanei, senza reti ne filtri, soli davanti allo spettatore e al suo giudizio critico. Entrambi (poesia e scrittura) inseguendo l’idea di creazione partendo dal nulla. Come ben scrisse María Zambrano, il poeta non si tormenta affinché, delle cose che ci sono, alcune giungano ad essere e altre non abbiano questo privilegio, lavora soltanto in modo che tutto, quel che c’è e quel che non c’è, arrivi a essere 11. Scrittori e pittore hanno dovuto spezzare la dualità dentro-fuori; entrambi si svuotano: non sono loro stessi, bensì ciò che rappresentano, o piuttosto ciò che presentano sottoforma di paragrafo o pennellata. Seguono, come moderni alchimisti, la pista infinita della trasformazione (Bellanca vi allude con la farfalla che appare in Elevata trasformazione, Incerta e oscillante zona mediana, Inconscio primordiale, Flusso di vita fossile). Gli scrittori ed il pittore vanno alla ricerca della parola perduta, il verbum dimissum della tradizione nascosta. Come nell’antica mistica islamica, alchemica e cristiana, come in Matilde di Magdeburgo, la pittura e la scrittura seguono la cosiddetta lingua degli uccelli, la quale altro non è che un fine esercizio di ascolto, ricorrendo al quale si raggiunge una conoscenza superiore e si ricupera la comprensione di una lingua perduta, forse angelica, comunque ultraumana capace di portare oltre le mediazioni stabilite dalle contingenze storiche 12.

Quando Renzo Bellanca concepisce la tecnica mista su tavola di Elevata interiorità, vuole, per mezzo del graffito, che ricorda lontanamente il Senza titolo (1981) di Basquiat, del numero, del simbolo del cuore e della farfalla, di schizzi e segni, parlare di dualità interiore. D’altra parte, lo scrittore e giornalista Luigi Galluzzo lo interpreta come un eterno contare, meccanico, di angoscia e liberazione: ci fermammo esausti a respirare, un sospiro lungo quanto un numero infinitesimale. L’attività stratigrafica di Bellanca in Topografia delle Quattro Terre viene descritta da Fabrizio Falconi come un viaggio notturno compiuto da Nico, prototipo dell’umanità odierna, al Palatino, dove coglie il suono di voci e rivincite… Quelle che nel linguaggio di Bellanca sono modulazioni di materia e colore, per Falconi sono fantasmi tutto intorno a lui, oltre il muro riempito di graffiti: nessuno dorme, nessuno riposa veramente… Giallo d’ocra il cielo, tramonto di luna. L’opera 35º Parallelo è un omaggio di Renzo Bellanca all’amata isola di Lampedusa ed al suo spazio geografico. Il muro plastico vede apparire una tartaruga insieme a un’orchidea del Mediterraneo. Gaetano Savatteri contrappone l’idea di libertà (la tartaruga) a quella di numero (quotidiano), contrapponendo il destino dello spensierato turista Eric Vroman a quello del clandestino Abdelhamid Souag, emozionato e preoccupato. Il modello della dinamica terrestre, la tettonica a zolle o delle placche, è il topos letterario per mettere in scena la moderna contrapposizione di un nuovo esodo di popoli tra i distinti punti cardinali, anche se entrambi stringono gli occhi nell’abbaglio della luce. In Inconscio Primordiale, Bellanca ci fa conoscere il principe dei suoi simboli: la farfalla. È una metafora della metamorfosi in sé, della necessità di catarsi, del trascinarsi sulla terra quando si vola sopra di essa. Giosuè Calaciura scrive, con un contrappunto efficace, di feti di api cristallizzate in una bara di resina…in questo rosso di tramonto. L’ape di Bellanca è, per Calaciura, l’ultima ape. Mi ritroveranno un giorno come una sentenza di condanna che viene da lontano, scolpita in un geroglifico nel cuore fossile di qualche pietra. Le lievi sfumature di colore presenti nei veli stratigrafici di Renzo Bellanca, in Mappatura delle Terre Gialle, suggeriscono a Paola Pastacaldi una microstoria, quasi tattile e olfattiva, tra Angela e un soldato delle truppe coloniali. Nella notte quel desiderio non ebbe alcuna colpa di esistere sotto il cielo generoso dell’Africa. Giacomo Cacciatore interpreta Flusso di Vita Fossile come i relitti sognati da un incisore. Un incisore che a un certo punto decide di strapparsi un pezzo di voce e l’hai sbattuto su un muro di città, da dove tutti passavano e tutti potevano leggere. Quella voce spiattellata sull’intonaco ha fatto un suono di calce fresca… Una voce poi sommersa dalla furia di un vulcano. Oggi il pubblico paga per vedere i tuoi proclami al popolo di allora, discorsi bendati da un velo di lava. Immagine efficace per incanalare il magma materico disposto da Bellanca in quest’opera, in cui sono incluse tessere di mosaico trovate nella città di Ourense e l’immagine rubata della farfalla mutante, contornata dalla materia e incrostata nella stessa con una resina sapientemente sedimentata. Echi di un passato vivo come la propria contrapposizione e la doppia verità, o doppio linguaggio contenuto nel titolo: Vita-Fossile. Per Roberto Cotroneo, L’inconscio primordiale in rosso è un sogno, come lo possono essere il deserto di Taklamakan, un orizzonte marino, un’auto che si sposta lungo Via Nazionale al ritmo di Dream a little Dream of Me. L’opera di Renzo Bellanca trova la sua sintesi in un verso di Pascoli, il sogno è l’infinita ombra del Vero. Le impronte di Bellanca, i suoi linguaggi alfanumerici, il suo fiore, sono per Cotroneo, in positivo e in negativo, l’inconscio più autentico, più profondo, come quell’ombra in cui riusciamo a specchiarci. Amara Lakhous crea una storia di incubi sull’orlo della pazzia di Pedrag, profugo della ex-Yugoslavia, rinchiuso in una cella le cui pareti sono quelle di Quiete Sospesa. Sulle pareti ci sono scritte e numeri sparsi in modo disordinato. L’interrogatorio si fa duro. Gli ordinano di decifrare le frasi caotiche, altrimenti gli sparano in bocca… La frattura materica creata da Bellanca nella sua opera monocromatica è interpretata da Amara Lakhous come una cicatrice che lacera l’anima. Passato e presente sono, per Davide Camarrone, aspetti dello stesso problema. Silvestre, inventore di un colore speciale, ci invia una Pietra su cui scrivo tutte le parole di tutti i libri e riproduco tutte le figure di ogni disegno, affinché siano esse riconosciute per tempo e poste al bando delle generazioni che sono venute a me e che da voi proverranno. L’amanuense Angelo, avendo scoperto la pietra, chiede al Maestro il permesso di costruire una stampa, affinché quei caratteri morti possano essere diffusi su tutta la terra. L’avvertimento ignorato, il pericolo annunciato di estinzione o regressione culturale. Così Camarrone crea un quadro letterario davanti al linguaggio plastico di Bellanca nel suo Sapere attraverso l’ascolto. Entrambi i linguaggi ci parlano di tensione, di mondi arcani, di immagini riflesse, di un passato che ritorna, di una sopravvivenza che dipende dall’ascolto, in un futuro cosparso di minacce.

Gaon di Vilna chiude il libro e torna a casa. Elohim ha creato il cielo e la terra partendo dal nulla. Alcuni secoli dopo, nel tramonto di un’estate a Barcellona, Antoni Tàpies conversa con il poeta José Ángel Valente: cercano di percorrere al contrario il cammino del rabbino. Si inizia creando il nulla, e la prima cosa che ogni artista deve fare è possedere lo stato di disponibilità presupposto da uno spazio vuoto. L’artista si rende tale svuotandosi. Il poeta ed il pittore non citano la Genesi, bensì alcuni versi di Antonio Machado:

Disse Dio: -Spunti il Nulla
E alzò la mano destra
fino a celare la vista.
E fu fatto il Nulla 13.

Tacquero entrambi, parlava il silenzio. Poco dopo, Valente ricordò Hai scritto: “un giorno proverò a raggiungere direttamente il silenzio”. Quel silenzio sarebbe proprio il nulla, il luogo della materia interiorizzata 14. Il Nulla è la materia interiorizzata. Il Nulla è un assoluto, come il Tutto. Il doppio linguaggio, pittura e scrittura, colore e metafora, pennellata e paragrafo, trattengono l’azione cercando di catturare l’istante presente nello sguardo, nella storia, nelle emozioni. Le fossilizzazioni di Bellanca sono, quindi, istanti d’eternità atemporale, di Bereshit, e contemporaneamente, di un nulla primordiale e necessario. Il Nulla è l’istante che precede, il silenzio indispensabile, il vuoto assoluto del non essere che precede la creazione. Fiat Umbra e Fiat Lux sono parte dello stesso pendolo. Doppio linguaggio, doppio silenzio di parole scritte e di materia rigenerata.

Juan Carlos García Alía


 

  1. Si sono sintetizzate molto brevemente alcune delle tesi di Henninger, Tillich, Eliade. Cfr. TESTA, Emanuele, Genesi, Paoline, Roma 1972, pp. 57-59.
  2. Cfr. GARCÍA ALÍA, Juan Carlos, Stratigrafie plastiche, Salvatore Sciascia Editore, Roma 2005; GARCÍA ALÍA, Juan Carlos, Emociones y erosiones, Centro Cultural D. O., Ourense 2006.
  3. OSBORNE, Peter, Arte Concettuale, Phaidon Press, London-New York 2006, p. 112.
  4. Cfr. TROLP, Julia, Parola e pensiero – la dematerializzazione dell’oggetto d’arte, in La parola dell’arte, Skira, Milano 2007, p. 435.
  5. COLOMBO, Davide, La scrittura manuale: segno, gesto, spazio, materia e parola, in La parola dell’arte, o.c., p. 560.
  6. IBIDEM, p. 562.
  7. GILLO Dorfles, Ultime tendenze nell’arte d’oggi, Feltrinelli, Milano 2006, pp. 40-41.
  8. BOZAL, Valeriano, Tàpies, muro, tiempo y cuerpo, en AA.VV., Tàpies en perspectiva, MACBA, Barcelona 2004, p. 102.
  9. BELLANCA, Lia, Indagine metonimica dell’arte, in Renzo Bellanca. Opere, Salvatore Sciascia Editore, Roma 2005, p. 125.
  10. MANACORDA, Daniele, Prima lezione di archeologia, Laterza, Bari 2004, p. 102.
  11. ZAMBRANO, María, Filosofia e poesia, Pendragon, Bologna 1998, p. 37.
  12. BUTARELLI, Annarosa, Una filosofia innamorata, Bruno Mondadori, Milano 2004, p. 58.
  13. MACHADO, Antonio, Nuevas Canciones y Cancionero Apócrifo, edición de José Ángel Valente, Clásicos Castalia, Madrid 1998, p. 228. Valente chiarisce il concetto di Nulla quando scrive esistiamo grazie al non essere, al nulla che possediamo, altrimenti non potremmo avere identità propria, distinta da quella di Dio, l’Essere totale e puro; e d’altra parte, ci distinguiamo dal mondo perché ce ne siamo allontanati, e vediamo perché l’occhio si è allontanato da ciò che vede, e andiamo perché ci sono sentieri da percorrere, e sentiamo perché nel mezzo del clamore ci sono silenzi (senza dubbio si ricorda l’osservazione di Platone che un suono costante non si può percepire)…
  14. TÀPIES, Antoni, VALENTE, José Ángel, Comunicación sobre el muro, Ediciones de la Rosa Cúbica, Barcelona 2004, pp. 18-19.